Mal di scuola

La scuola è da sempre per i giovani un luogo di socializzazione, oltre che di apprendimento. Uno spazio in cui sentirsi parte di una gruppalità, in cui confrontarsi con i pari, sviluppare amicizie e crescere, sia culturalmente che umanamente. In quest'ottica gli insegnanti hanno sempre avuto un ruolo fondamentale nella società: accompagnare gli studenti in questa palestra di vita, trasmettendo conoscenze, ma anche sorvegliando il percorso di maturazione delle nuove generazioni.

Nel corso degli anni però l'ambiente scolastico è divenuto via via più complesso, di difficile gestione, quasi problematico. Tanti i cambiamenti che sono subentrati: dalle classi multietniche, alla rivoluzione tecnologica, alla precocità dei giovani di oggi, fino alla didattica a distanza divenuta obbligatoria nei due anni di pandemia, che ha lasciato tanti strascichi in termini di malessere psicologico proprio negli adolescenti, privati delle libertà e delle necessità di relazionarsi coi pari tipiche della loro età.

Sono trascorsi pochi mesi da quando un ragazzo ha accoltellato una professoressa ad Abbiategrasso in provincia di Milano, vicenda che ha riportato alla ribalta nella cronaca nazionale proprio il tema dello stato psicologico di molti studenti di oggi: una condizione di grande fragilità, quasi borderline, dove bastano piccoli vissuti di frustrazione per provocare delle reazioni fuori controllo. Un caso che si associa all'aumento esponenziale del fenomeno del bullismo, delle baby gang, della violenza giovanile, che non trova più limiti né regole, e che spesso si manifesta proprio all'interno del contesto classe, dove il rispetto verso l'autorità rappresentata dagli insegnanti è ormai svanito, superato dalla percezione di poter fare ciò che si vuole, perfino sparare in aula con pistole ad aria compressa prendendo di mira proprio i professori.

Ma cosa è accaduto negli ultimi tempi per esasperare a tal punto la situazione? Come ha fatto il comparto scuola a perdere in questo modo la sua autorevolezza, a non riuscire a fronteggiare per tempo il fenomeno, a permettere tale decadenza di usi e costumi dei suoi studenti? È vero, da che mondo e mondo se agli insegnanti spetta il compito di occuparsi dell'istruzione dei giovani, la loro educazione dovrebbe invece essere campo d'azione delle famiglie. Viviamo però in un'epoca in cui i genitori, spesso per motivi di forza maggiore, sono sempre più estranei nella vita dei figli che, di conseguenza, vengono privati di tutti i punti di riferimento fondamentali in merito a valori, principi, modelli e regole di comportamento: una mancanza del senso di ciò che è giusto o sbagliato, di limiti, appunto. Larga parte del compito educativo così ignorato dalle famiglie va a ricadere poi inevitabilmente sul personale scolastico, che si trova a dover combattere una duplice battaglia: quella contro l'ignoranza e l'analfabetismo dei giovani, e quella ancora più dura poiché tardiva, contro la maleducazione e l'irriverenza di soggetti che, al pari di erbe selvatiche, vengono lasciati crescere allo stato brado, intolleranti a qualunque forma di costrizione, dovere o regola di civiltà.

Se gran parte del problema sta dunque nella mancanza di una giusta collaborazione tra istituti scolastici e famiglie, al punto che spesso sono i genitori stessi a difendere a spada tratta figli viziati e ingestibili non appena la scuola prova a contenerne il vuoto educativo, un altra grave difficoltà nasce dal mancato adattamento della scuola al mutamento sociale, tecnologico, valoriale. In una società che cambia, non si può pretendere che la scuola rimanga sempre uguale. Un contesto scolastico che nega il cambiamento, che non ha la capacità di adattarsi ad esso, che continua a funzionare tramite sistemi di insegnamento ormai obsoleti, poco coinvolgenti, che non fanno leva sulla curiosità degli studenti e su una loro partecipazione attiva è destinato a divenire un luogo di malessere. Un luogo in cui prevalgono noia, rifiuto e frustrazione, in cui il piacere di apprendere lascia il posto alla paura dei brutti voti o al menefreghismo, in cui la dimensione del dovere finisce con l'avere la meglio sulla conquista del diritto allo studio. E così c'è poco da meravigliarsi se tutte quelle energie, quel potenziale creativo, quegli ormoni che nella scuola ribollono, non trovando valvole di sfogo sane e costruttive, rischiano di essere incanalate e scaricate in azioni forti, caotiche, distruttive, o in altre manifestazioni di sofferenza. 

A questo proposito parlano chiaro i dati emersi da una ricerca condotta nel 2020 su indicazione del Ministero dell'Istruzione, da cui si evince che il 73% degli studenti italiani a scuola sta male. Daniela Lucangeli, professoressa di Psicologia dello sviluppo presso l'Università degli Studi di Padova ed esperta di psicologia dell'apprendimento, non ha dubbi: “Ingozziamo i ragazzi di prestazioni: allo studente si chiede di imparare troppo, in poco tempo, senza passione, con l’ansia di doverne rendere conto. Colpa e paura sono le emozioni alla base del nostro sistema educativo, ma tutto ciò produce un cortocircuito emozionale che genera malessere e inceppa l’apprendimento”. Da qui un invito al mondo scuola a concentrarsi di più sugli stati d’animo degli studenti mentre apprendono: “A scuola, come nella vita, cresce ciò che semini. Se un bambino impara con gioia, nella sua memoria resterà traccia dell'emozione positiva che lo incoraggerà a proseguire. Se un bambino impara con gioia, impara di più e meglio”. Il bravo maestro, ergo, “è colui che aiuta, che dà fiducia e coraggio, non che ingozza e giudica, somministra e verifica”.

Sarà anche per questo che negli ultimissimi anni si stanno sperimentando le scuole senza voti: istituti scolastici che scelgono cioè di non utilizzare i voti numerici dando, piuttosto, una maggiore attenzione alle competenze e al percorso di ogni singolo alunno. C’è il caso di un liceo di Roma dove i voti sono solo alla fine del primo quadrimestre e al termine dell’anno scolastico. Il risultato, secondo docenti e alunni, è chiaro: meno stress e ansia da prestazione. Gli studenti vengono interrogati ed hanno i compiti in classe, ma alla fine i docenti non scrivono voti numerici, ma spingono gli alunni a capire quanto e come hanno studiato e come potrebbero fare per migliorarsi e per approfondire.

Anche a Firenze e Palermo ci sono così analoghi: i ragazzi ricevono dei riscontri sul loro percorso sulla base di rubriche di valutazione, che però non vanno a dare un numero alla prova, ma puntano ad analizzare gli aspetti di forza e di debolezza di ciascun allievo. Come sostengono i promotori di queste iniziative: “Un ragazzo non deve identificarsi con un numero. Bisogna cambiare prospettiva. Tu vali 7 nella vita? O vali per quello che fai o puoi fare? Il voto crea una competizione non sana. Togliere quei numeri renderebbe la scuola anche più inclusiva nei confronti dei sempre più numerosi giovani con bisogni educativi speciali. La scuola deve essere per tutti. E un 3 non serve a crescere, ma solo ad abbattere l’autostima”.

Il progetto “scuola senza voto” è ancora in fase di sperimentazione, ma le premesse sono molto buone, così come gli obiettivi: instaurare una didattica di tipo relazionale, che valorizza l'emotività degli studenti, in grado di coinvolgere tutti coloro che contribuiscono alla formazione degli studenti, compresi i genitori, anche al fine di ridurre le distanze generazionali e far sentire meno soli i ragazzi. Un modello, quello della didattica narrativa e senza voto, che nasce nel Nord Europa e di cui gli esempi in Italia sono ancora troppo pochi.