I magnifici 5: consigli per una buona estate in famiglia - I COMPITI
Troppi compiti smorzano l'entusiasmo e la possibilità di crescere utilizzando tutte le capacità fisiche, sociali, psicologiche e cognitive che nel bambino sono in maturazione. Invece la lettura di libri, quella sì che è fondamentale!
Il termine dell'anno scolastico porta inevitabilmente con sé una serie di cambiamenti che possono mettere a dura prova l'organizzazione quotidiana dei genitori, soprattutto con i figli più piccoli.
Una di queste prove è convincere i bambini a fare i compiti.
Ricordo che alcuni anni fa ci furono varie polemiche sulla quantità eccessiva di compiti per le vacanze che aggravavano le estati dei bambini.
Ora la situazione è più variegata: alcuni insegnanti continuano a pretendere notevoli esercizi, temi e letture, che prevedono un impegno costante durante i mesi estivi, ma altri consigliano solamente la lettura di alcuni libri.
Dopo nove mesi di scuola il bambino ha un bisogno psicofisico essenziale di trascorrere la giornata in maniera completamente diversa. Il benessere dipende da un giusto equilibrio tra attività fisiche, manuali e mentali.
Questo significa che serve un incremento di attività motoria accompagnata dalla riscoperta di aspetti creativi. Troppi compiti smorzano l'entusiasmo e la possibilità di crescere utilizzando tutte le capacità fisiche, sociali, psicologiche e cognitive che nel bambino sono in maturazione.
Il bambino sarà anche più insofferente e stanco.
Condivido quindi pienamente la scelta degli insegnanti che hanno deciso di suggerire 2/3 libri da leggere durante l'estate, accompagnando ciò con il quaderno degli esercizi sì, ma senza lo spauracchio dei voti a settembre. Il quaderno con esercizi di varie materie c'è: ogni tanto si può compilare, liberamente, e non va riconsegnato a settembre completato. Serve come mantenimento di ciò che si ha imparato durante l'anno scolastico.
Invece la lettura di libri, quella sì che è fondamentale!
Fate leggere i vostri figli... per i magnifici 5:
1- Molti studi hanno dimostrato che leggere (negli adulti oltre che nei bambini) , porta allo sviluppo dimaggiori capacità empatiche, di comprensione dell’altro e di visione da una differente prospettiva.
2- La lettura nei bambini è utile perché li aiuta a capire come funzionano loro stessi, il mondo circostante, con le regole culturali, sociali e valoriali del paese in cui vivono.
3- I libri riescono ad infondere nel bambino fiducia in se stesso, e quindi crescita dell'autostima, perché è un'attività che riesce a fare tutto da solo e in libera scelta.
4- Leggere ad alta voce è importante perché permette di affinare la propria espressività, ponendo le basi per una buona comunicazione e per lo sviluppo di attività sociali gratificanti.
5- Leggere libri migliora le funzioni cognitive come memoria, linguaggio, concentrazione, attenzione: i lettori saranno adulti capaci di esprimersi meglio, di comprendere meglio il mondo avranno capacità superiori di problem solving.
Ecco i compiti più nutrienti dell'estate: leggere libri!
Invecchiamento normale e invecchiamento “di successo” - Perché è così importante invecchiare bene
E' un “dovere” prima di tutto verso se stessi, invecchiare mantenendosi in salute, indipendenti, attivi e.. felici.
Il termine “invecchiamento” viene sempre maggiormente utilizzato, in un millennio che ha portato effettivamente all'allungamento della durata della vita. Inveceil termine “anziani” piace a pochi e sicuramente non appartiene più alla fascia di età dei sessantenni, oggi sempre più somiglianti ai quarantenni di 50 anni fa.
La vera anzianità, peraltro è legata a fattori psicofisiologici tipici degli ultraottantenni, una eterogenea fetta della popolazione in costante crescita.
Inoltre , ricerche recenti dimostrano come- almeno in apparenza – non ci sia limite all'aspettativa di vita. Di certo c'è che questa viene spostata sempre più avanti, basti pensare al fenomeno ultracentenari: un tempo rappresentavano un'eccezione nella popolazione, mentre ora in Italia sono già migliaia e sempre in aumento.
Tuttavia, se da una parte l'aumento della longevità è un indicatore positivo del progresso socio-economico, dall'altra le popolazioni anziane vengono viste come una minaccia per i sistemi socioassistenziali e pensionistici, dato che un anziano polipatologico ha un costo sociale elevato.
E' perciò “dovere” prima di tutto verso se stessi, ma anche verso la società, mirare ad una longevità caratterizzata dal maggior benessere possibile, ovvero invecchiare mantenendosi in salute, indipendenti, attivi e.. felici.
Anche WHO (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha sottolineato come un invecchiamento attivo ritardi l'erogazione di cure, la dipendenza fisica e pertanto aumenti l'aspettativa di vita libera da disabilità.
Stare bene e a lungo è l'obiettivo che tutti noi abbiamo nel presente e ci auguriamo nel futuro. Ma il benessere va “costruito” nell'età adulta e mantenuto nella terza età. Come?
Ryff definisce il benessere secondo alcune dimensioni:
1- autoaccettazione, e cioè riconoscere e accettare le proprie qualità e propri limiti, mantenendo sempre sentimenti positivi verso la vita;
2- crescita personale, cioè vedersi ad ogni età in continuo sviluppo, essere pronti a fare nuove esperienze e valersi delle proprie potenzialità;
3- relazioni positive con gli altri, basate su reciproca fiducia;
4- autonomia, autodeterminazione e indipendenza, con la capacità di resistere alle pressioni sociali;
5- dominio sull'ambiente, cioè possedere un senso di padronanza e competenza nel gestire l'ambiente, con la capacità di scegliere e utilizzare i contesti adeguati ai propri bisogni.
6- scopo di vita: essere consapevoli che la propria vita passata e presente ha un senso e un significato anche in relazione al futuro.
Ciò che deve stare alla base di un invecchiamento di successo è la resilienza, intesa come capacità di affrontare con tenacia e determinazione avvenimenti della vita difficoltosi (malattie, lutti, separazioni, etc.) insieme alla capacità di utilizzare il “pensiero positivo”, che si sostanzia in un processo cognitivo in cui vi è la tendenza a pensare positivamenteai diversi ambiti del proprio vivere, alle proprie caratteristiche personali, alle aspettative verso il futuro.
Un buon grado di autostima, sorretto dall'utilizzo di strategie di coping funzionali al benessere psicofisico (es. alla riduzione dello stress), insieme a soddisfazione di vita e ottimismo, determinano quindi un “sistema di pensiero” adattivo all'invecchiamento di successo, che è strettamente in relazione con un'attenuazione e un ritardo del normale declino cognitivo.
Infine, ciò che rende sempre, ad ogni età, la vita speciale è – come dice il prof. Cesa Bianchi – la creatività, caratteristica che sa dare un senso alla propria identità, che è bagaglio di ogni persona e va sviluppata lungo tutto il corso della vita.
Anche il premio Nobel Rita Levi Montalcini, ha più volte sottolineato come l'immaginazione, con l'avanzare dell'età sia elemento che si amplia sempre più, anziché diminuire.
E la Montalcini (morta a 103 anni) ci sembra un vero esempio di invecchiamento di successo!
Psicologia e natura: un binomio vincente
L’ecopsicologia nasce dall’incontro di due scienze che mettono al centro le profonde connessioni tra la natura umana e il regno della natura, punto di partenza per un nuovo approccio di benessere.
La psicologia si è da sempre occupata del benessere dell’uomo. L’ecologia si è sempre occupata dell’ambiente esterno senza prendere troppo in considerazione l’essere umano come parte integrante e condizionante dell’amiente e senza riconoscere che anche le dinamiche psichiche possono avere, almeno indirettamente, un’influenza sull’ecosistema.
L’ecopsicologia nasce dall’incontro di due scienze che mettono al centro le profonde connessioni tra la natura umana e il regno della natura, punto di partenza per un nuovo approccio di benessere.
I benefici del contatto con la natura sono molteplici: la wilderness (natura incontaminata) può rappresentare un nuovo setting terapeutico, un’opportunità di riscoperta e valorizzazione degli aspetti più profondi e vitali di ognuno di noi. L’incontro con paesaggi, suoni, colori, spazi diversi favoriscono il rilassamento della mente e ci mette in contatto con le nostre emozioni.
Camminare, muoversi su terreni variegati, ascoltare, osservare e respirare la natura offre una preziosa opportunità di scaricare le tensioni e dimenticare lo stress per immergersi in una nuova dimensione: un percorso di crescita in cui la persona impara a relazionarsi in modo autentico con se stessa aprendosi alla molteplicità e alla ricchezza del proprio essere.
Nel contempo vi è l’aspetto di benessere del corpo: riprendendo il vecchio detto “mens sana in copore sano”, è orami risaputo che camminare è l’attività fisica che, con ritmi diversi, ognuno può praticare a tutte le età.
Se a questa aggiungiamo le indicazioni dell’ecopsicologia, ricordandoci che siamo parte integrante del mondo in cui viviamo e che questo mondo merita il nostro rispetto, possiamo davvero scoprire un’inesauribile fonte di benessere nella natura che scopriamo. Ogni forma di vita va ammirata, capita e attraverso la percezione sensoriale (es. percorsi bendati) ci alleniamo a valorizzare tutti i nostri sensi e non solamente la vista, per esplorare le diverse forme di alberi, foglie e fiori.
L’ecopsicologia propone programmi di benessere, ponendo l’importanza della valorizzazione ai suoi tre aspetti fondamentali: libertà, creatività e responsabilità.
Allontananodci dalla compulsione consumistica, riconosciamo a luoghi, piante, animali la dignità e il diritto di esistere al di fuori di una logica di struttamento economico, cercando di riconciliarci con i ritmi e i cicli della natura, con lo scopo di entrare in empatia con il mondo naturale.
Molti studiosi affermano che c’è un legame stretto tra le malattie degli individui e quelle del mondo: quando i bisogni di base (senso di sicurezza, accettazione, affetto, autostima) non vengono soddisfatti vengono poi compensati con sostituti fittizi: eccesso di cibo, alcool, violenza, sesso compulsivo, possesso materiale... L’interazione umo-natura riporta un autentico equilibrio interiore, attraverso un consapevole contatto con corpo, mente ed emozioni, che migliorano anche il nostro atteggiamento verso gli altri, le nostre difficoltà di relazione e la gestione dei conflitti.
Depressione post partum
Negli ultimi anni vi è stato un incremento dei disturbi depressivi dopo il parto, in particolar modo dopo la nascita del primo figlio: ne hanno sofferto dal 3% al 70% delle donne adulte. Il dato più sconcertante è che la maggioranza delle donne con depressione non viene individuata.
La nascita di un figlio rappresenta un evento molto importante nella vita di una donna, tanto che diventare madre è considerato un marker event, cioè una tappa nello sviluppo della personalità adulta. Erikson ritiene che la nascita di un figlio costituisca una delle crisi evolutive più importanti che si verificano nell'età adulta.
Spesso il periodo della gravidanza risulta trascorrere in maniera relativamente tranquilla, finché si giunge al “capolinea” e quindi al delicato e doloroso momento del travaglio. Nel periodo immediatamente successivo al parto, lo scenario cambia.
Negli ultimi anni vi è stato un incremento dei disturbi depressivi dopo il parto, in particolar modo dopo la nascita del primo figlio: ne hanno sofferto dal 3% al 70% delle donne adulte. Il dato più sconcertante è che la maggioranza delle donne con depressione non viene individuata.
Durante il periodo post-partum, per un'efficace prevenzione secondaria, le puerpere dovrebbero poter usufruire di uno specifico servizio di cure secondarie di tipo psicologico o psicoterapeutico.
Ferraro e Nunziante Cesaro considerano l'esperienza della maternità (gravidanza, nascita e accudimento del bambino) un “lavoro psichico” che si conclude con l'acquisizione di un nuovo equilibro maturativo per l'identità femminile oppure può presentare difficoltà ed evolvere verso l'esordio del disturbo depressivo.
Pines sottolinea come un'identificazione positiva con la propria madre permetta alla donna, attraverso una temporanea regressione legata alla gravidanza, di identificarsi con un genitore capace di dare la vita e nello stesso tempo di ricordarsi del sé bambina: ed è così che è possibile – secondo Pines – realizzare una maturazione completa della personalità.
Tuttavia, il grande incontro col bambino conduce ad un inevitabile divario tra quello che è stato per nove mesi il “bambino idealizzato” e l'immagine vera del “bambino reale”.
Come dice Ammaniti: “Nei primi giorni di vita del piccolo, il mondo emotivo della madre ha un improvviso viraggio: la donna si sente prostrata da un insieme di responsabilità riguardanti l'accudimento del figlio – come ad esempio il bagnetto, il cambio del pannolino e l'allattamento – che l'investiranno dopo il ritorno a casa.” E poiché familiari ed amici danno per scontato che la nascita di un figlio sia un evento che porta solo gioia, la madre cerca di dissimulare queste preoccupazioni, anche se sente crescere dentro di sé un'inspiegabile sfiducia per il futuro.
E' quella che viene definita maternity blues (o baby blues).
La maternity blues è associata generalmente alle modificazioni ormonali indotte nel post-partum e tende ad esaurirsi nelle prime due settimane di vita del bambino, con un progressivo miglioramento del tono dell'umore materno (Ammaniti).
Secondo Winnicott, comunque, nei primi tre mesi di vita del bambino è sempre presente un'ansia della madre legata alla salute del bambino e alle proprie capacità di fronteggiare il ruolo genitoriale: è la “preoccupazione materna primaria”.
Il periodo perinatale implica uno stato mentale alterato e l'aspetto fisico del neonato e il suo temperamento incidono profondamente sulle preoccupazioni e sulle modalità di accudimento delle madri. Vi è poi anche un'accentuata sensibilità a stimoli ambientali ed emotivi.
Secondo alcuni studi, nelle prime due settimane dopo il parto, i genitori hanno pensieri insistenti sul figlio (circa 14 ore al giorno le madri e 7 i padri) e circa il 95% delle madri ( e l'80% dei padri) presenta preoccupazioni circa la salute del bambino.
Risulta anche che durante la gravidanza il 37% dei genitori riporta pensieri insistenti di far del male al proprio figlio e dopo la nascita questo riguarda quasi tutti i genitori e il 30% riferisce di avere pensieri ricorrenti di colpire il bambino. Questi pensieri causano un notevole distress emotivo, ma generalmente sono destinati a scomparire durante i primi mesi di vita del bambino, anche se possono in alcuni casi favorire l'insorgere di disturbi depressivi e di psicosi.
I QUADRI CLINICI DELLA DEPRESSIONE POST-PARTUM.
La depressione post-partum rientra all'interno dei diversi quadri clinici che a loro volta riguardano differenti forme e livelli di gravità. Il termine “depressione postnatale” è spesso utilizzata in modo improprio per descrivere una gamma di sintomi che vanno dalla facilità al pianto e dalla labilità emotiva alla perdita di contatto con la realtà, tipica delle psicosi puerperali. E' quindi molto importante chiarire un quadro di riferimento condiviso per i vari disturbi.
Maternity Blues: è un lieve disturbo emozionale transitorio che colpisce più del 50% delle donne occidentali nei giorni immediatamente successivi al parto (era chiamata anche “sindrome del terzo giorno”). I blues sono caratterizzati da crisi di pianto, ipersensibilità e oscillazioni del tono dell'umore che si accentuano intorno al quinto giorno dopo il parto e possono durare da alcune ore ad alcuni giorni (Horowitz).
Cimino individua sette sintomi principali:
1- tendenza al pianto (manifestazione centrale)
2- stanchezza
3- ansia
4- ipersensibilità
5- labilità dell'umore
6- tristezza
7- confusione mentale (intensa come scarsa concentrazione e difficoltà di pensiero concettuale)
Normalmente lo stato emotivo della maternity blues tende a scomparire in poche settimane. Tuttavia alcune madri hanno bisogno di maggior tempo per rielaborare l'esperienza vissuta con la nascita del bambino e per incontrarlo nella realtà (Ferraro e Nunziante Cesaro) e quindi possono presentare un quadro clinico particolarmente accentuato e duraturo di maternity blues, caratterizzato da crisi di pianto, irritabilità e disturbi somatici, come insonnia, cefalee e anoressia (Guedeney).
Nella maternity blues sono implicate determinanti psicologiche, sociali e biochimiche. Studi scientifici evidenziano una prevalenza tra il 50% e l'80% della maternity blues, con remissione spontanea dopo circa un mese.
Depressione post-partum. I sintomi sono: sentimenti d'inadeguatezza, d'incompetenza e di disperazione, collera, ipersensibilità, ansia, vergogna, odio e trascuratezza verso se stesse e verso il bambino, disturbi del sonno e dell'appetito, calo del desiderio sessuale e pensieri suicidari. In casi estremi anche pensieri infanticidi (Cimino). Sono 4 i fattori di vulnerabilità:
1- perdita della madre prima degli 11 anni
2- mancanza di una relazione intima coniugale
3- mancanza di un lavoro retribuito
4- tre o più figli sotto i 14 anni
Questi sono fattori che possono predisporre una donna alla depressione post-partum; c'è da considerare che in ogni caso i fattori eziopatogenetici possono essere i più vari: biomedico, psicologico, relazionale ed interagenti tra loro.
Sicuramente la depressione post-partum influisce sulla relazione tra madre e bambino: in genere la madre, pur essendo presente fisicamente, non lo è emozionalmente. La qualità dell'interazione diadica negli stati di depressione produce infatti una generale limitazione dell'espressione dell'affettività, per esempio con la tendenza ad evitare il contatto fisico e visivo con il neonato e nell'incapacità di inserirsi nelle vocalizzazioni dei figli, oltre che in difficoltà rilevanti nell'interpretare correttamente i segnali che inviano i bambini. La depressione post-partum ha un'incidenza tra il 3% e il 15% delle donne.
Psicosi puerperale. In alcune donne con personalità di tipo borderline, il parto può creare una profonda frattura tra madre e bambino, poiché la genitrice non è in grado di ricostruire una nuova unità in cui compenetrare e fondere aspetti corporei ed aspetti psicologici.
Vi sono varie forme di psicosi puerperale. Soifer descrive una forma grave in cui la donna vive in uno stato ritirato, è triste, rifiuta totalmente il suo bambino, è apatica, trasandata, presenta insonna e inappetenza. Spesso riferisce allucinazioni uditive e idee deliranti di tipo paranoide (es. che qualcuno la voglia derubare o uccidere). Questo stato può avere una remissione spontanea dopo giorni, mesi o anni, però presenta un alto rischio di tentativi di suicidio o di attacchi diretti al bambino, pertanto non va sottovalutata.
Alcuni autori hanno evidenziato una “psicosi puerperale di tipo maniacale” con presenza di tono dell'umore eccessivamente elevato, con presenza di irritabilità e di iperattività e pur tuttavia con la madre che non si occupa del bambino, ma lo lascia alle cure dei familiari, che tende quindi a delegare ad altri i propri compiti di caregiving. In questo caso i rischi maggiori sono relativi al futuro del bambino, poiché si ha una madre il cui ruolo materno è incompleto e parziale. Le psicosi puerperali presentano un tasso di frequenza tra lo 0,3% e il 2% della popolazione di donne adulte (secondo American Psychiatric Association).
Da quanto emerso risulta evidente che i disturbi dell'umore nel periodo del puerperio richiedono una valutazione clinica anche se la sofferenza appare in forma lieve o media, sia per quanto riguarda la salute della donna, sia in quanto il rischio di compromissione della qualità dell'accudimento può costituire un fattore di rischio rilevante per lo sviluppo affettivo e cognitivo del bambino.
E' necessaria inoltre una formazione specifica per tutti gli operatori sanitari affinché si possa promuovere, nel periodo successivo al parto, il benessere psicologico delle donne.
In forma ad ogni costo - Sport-addiction: culto del corpo o patologia?
La società odierna ha messo al centro il culto del corpo perfetto, sottolineando come bellezza e magrezza siano un must irrinunciabile.
Questa ricerca spasmodica della perfezione, con l'aiuto anche di diete e chirurgia estetica, rivela che lo sport viene sempre più utilizzato per apparire meglio agli occhi degli altri. Il che ci parla di un bisogno relazionale, piuttosto che personale.
Fin da piccoli ci è stato detto e ripetuto che fare sport “fa bene al fisico”: in effetti lo sport è da sempre considerato uno strumento di benessere e un aspetto importante della propria vita.
Lo è divenuto a tal punto che lo si inserisce nei curriculum vitae, sia lo si pratichi a livello dilettantistico che a livello agonistico.
Praticare uno o più sport è sicuramente importante per il nostro fisico, purché questo importante mezzo di benessere non diventi un'ossessione.
La società odierna ha messo al centro il culto del corpo perfetto, sottolineando come bellezza e magrezza siano un must irrinunciabile.
Questa ricerca spasmodica della perfezione, con l'aiuto anche di diete e chirurgia estetica, rivela che lo sport viene sempre più utilizzato per apparire meglio agli occhi degli altri. Il che ci parla di un bisogno relazionale, piuttosto che personale.
La situazione è diversa quando una persona non riesce a fare a meno di fare sport, che diventa una sorta di droga a cui non può rinunciare, che va ben oltre i fini salutistici.
Questa persona è detta sport-addicted, cioè un individuo che ha sviluppato una vera e propria dipendenza dallo sport, che non è legata alla quantità dello sport praticato, bensì nella presenza di sintomi simili a quelli presenti in altre dipendenze.
Vi sono 3 categorie principali, ognuna delle quali ha un rapporto particolare con l'attività sportiva:
- i maniaci sportivi, sono coloro che traggono un miglioramento psicologico positivo nella pratica sportiva, che è accompagnata da un senso di benessere, di soddisfazione e di successo;
- gli sportivi compulsivi, per cui l'attività fisica è un modo per sostenere una precisa routine, che conferisce un senso di controllo e di superiorità morale;
- i dipendenti dallo sport, in cui l'attività fisica ha la funzione di regolatore dell'umore e di eventuali squilibri interni. In questi soggetti, l'attività sportiva lenisce uno stato di malessere, che la persona prova al di fuori dell'attività fisica e la pratica sportiva rappresenta l'unico momento della giornata in cui ci si sente vivi e attivi.
Ma se lo sport finisce per dominare in modo crescente l'intera vita della persona, condizionandone i ritmi e influenzandone le relazioni, non si può più pensare che sia fonte di benessere, ma ci dice che qualche cosa non va.
E' bene distinguere quindi tra un sano ed equilibrato esercizio fisico, che è rivolto alla cura di sé e al miglioramento della propria vitalità, da un modo patologico di vivere lo sport, in cui le pratiche legate all'allenamento diventano così totalizzanti da incidere su tutti gli altri aspetti della vita, come il lavoro, lo studio, i rapporti sociali e le relazioni sentimentali.
I sintomi propri della dipendenza si manifestano in assenza dell'attività sportiva e determinano la spinta ad impegnarsi sempre di più. Questa spinta diventa compulsione volta a ridurre le sensazioni negative derivanti dalla mancanza dell'attività fisica.
Col tempo appariranno emozioni come il senso di vuoto o il senso di colpa per non essersi dedicati allo sport a sufficienza.
E chi soffre di sport-addiction non ammette il proprio disagio. Pertanto è difficile persuaderlo a chiedere aiuto ad uno specialista. Ma uno psicologo può aiutare anche le persone che gli sono accanto a fargli capire il suo malessere.
In chi pratica lo sport in modo sano, appaiono invece molte emozioni positive: innalzamento del tono dell'umore che sarà determinante per lo svolgimento delle altre attività, nel lavoro e nelle relazioni; sensazione di competenza e di successo; aumento delle propria attribuzione alla riuscita e innalzamento dell'autostima.
Pertanto rimane vero il vecchio “mens sana in corpore sano”, purché sia accompagnato dall'eliminazione di eccessi, poiché “in medio stat virtus” (la virtù sta nel mezzo).